Una mattina al Monastero

Era settembre, abbandonai quel gomitolo di strade che sfocia sull’Etna, mi recai al Monastero dei Benedettini, pronta a sostenere l’esame di letteratura italiana.  Salii velocemente le scale del secondo piano, ancora imbrattata di sudore, vivendo l’ansia dell’attesa, la paura della solitudine, schivando gli sguardi  dei passanti, immobile in un’istante così opprimente. In un attimo mi ritrovai  su una di quelle panche sotto gli ulivi, con il cuore in fiamme dal fallimento.

È sempre così dopo un esame di letteratura, ti senti stanco e raramente soddisfatto. La pioggia aveva portato via  la luce sferzante di agosto, cominciai a camminare lungo quella distesa di alberi impassibili e scesi in biblioteca a cercare qualcosa da leggere. Trovai  lì una ragazza, confinata in una nicchia polverosa, costretta a ricopiare codici e sistemare scaffali, sempre con lo stesso libro tra le mani.

La incontrai di nuovo nel giardino dei novizi, continuava a leggere incessantemente il suo libro, cercando conforto nelle parole, la vedevo sorridere e sorridevo a mia volta. Dopo mezz’ora era ancora  lì, immobile, con lo sguardo fisso su quelle pagine sgualcite, ebbi l’impressione di trovarmi di fronte ad una di quelle persone che ascolta il silenzio, che ama la solitudine, che non ha paura di restare sola. Poi di colpo  si alzò e andò via velocemente quando mi accorsi che aveva lasciato cadere qualcosa, era una lettera. Mi chiesi se avesse senso leggerla, all’esterno nessun nome, nessuna data, nessun indizio utile che mi potesse ricondurre a lei, provai a chiedere dei tirocinanti in biblioteca, ma nessuno la riconobbe dalla descrizione che ne feci, si era dissolta completamente quindi cominciai a leggere convinta di smettere non appena avrei trovato il primo indizio utile.

         Caro Marco,

        Ho scritto undici lettere, ecco la dodicesima, la più importante, l’unica che non l’ascerò divorare    dalla tetra umidità di una scatola di latta perché sei l’unico che io abbia mai amato. È passato solo un autunno da quando ci siamo rivolti l’ultimo sguardo, quando ho compreso che dovevo venire da te, balbettare qualche sillaba ed essere completamente rapita dai tuoi occhi, dove la pupilla non si confonde con il colore dell’iride, un labirinto pieno di strade, dove sai che puoi perderti, dove ti sei già persa.

Non riuscii a continuare la lettura, sentivo di stare violando la vita di quella ragazza, così decisi di rivolgere lo sguardo verso la fine, ma anche lì nessuna firma, nessun indizio utile, a parte questo:

              «incontriamoci alle cinque di questo pomeriggio dove è la perfetta congiura di sentimenti architettonici a suscitare fascino. »

Questa frase non mi era nuova, capii che si trattava della descrizione che un architetto aveva fatto del chiostro del Monastero tempo fa e decisi di andare all’appuntamento.

Erano le cinque in punto, lei era lì, adesso riuscivo a leggere il titolo del libro che aveva sfogliato per tutto il giorno, era l’insostenibile leggerezza dell’essere, ne fui sorpresa. Anche io lo avevo letto tra i banchi delle aule, sotto gli ulivi del giardino all’entrata, seduta tra le colonne in marmo bianco del chiostro e ancora dietro le finestre di quelle scale ampie, dove la vista è così imponente che ti senti sommersa da quella bellezza.

Cominciammo a parlare di Milan Kundera, del libro, di come quella semplice lettura ci avesse stravolto la vita. Lei mi disse che aveva regalato lo stesso libro ad una persona importante, ma che quest’ultima non lo aveva tenuto minimamente in considerazione e di come questo le avesse spezzato completamente il cuore. Dopo averle consegnato la lettera che aveva smarrito, sorpresa di come fossi riuscita a comprendere il luogo dell’appuntamento, mi raccontò la sua storia. Mi disse che quella lettera la aveva scritta qualche anno fa, che nonostante tutto era ancora innamorata di Marco, che quel giorno di due anni prima lui non andò a quell’appuntamento, che dopo averla letta gliela rimandò indietro senza dire nulla.

Quando mi disse che si recava lì ogni giorno alla stessa ora da due anni, capii che voleva piangere, consumarsi fino a sparire, sentii che brancolava ancora nel dolore sperando che un giorno il destino la riconducesse di nuovo da lui, che sarebbe rimasta raggomitolata nei ricordi per sempre e fui subito triste anch’ io.

Non sapevo che cosa volesse dire innamorarsi e struggersi così, non sapevo cosa stesse provando in quel momento, ma ero decisa a salvarla dai suoi stessi pensieri. Pensai che al suo posto potevo esserci io, cominciai ad avere paura e la paura mi spinse a farla ragionare. Le chiesi cosa l’avesse spinta a regalare a Marco proprio quel libro e lei mi rispose che lo aveva fatto nella speranza che lo leggesse e capisse che la sua pesantezza nel vivere era la stessa che aveva colto una delle protagoniste del romanzo, quindi non pesantezza ma attaccamento alla vita, insomma proprio come  Sabina <<su di lei  non era caduto un fardello, ma l’insostenibile leggerezza dell’essere>>.

Continuò per ore a parlare con me sforzandosi di spiegare al meglio le proprie ragioni e poi mi chiese se fosse davvero possibile, come le diceva sempre Marco, vivere con leggerezza.

Io risposi che leggendo quel libro avevo compreso che la leggerezza è l’assenza del  fardello opprimente che grava sulle spalle di ognuno di noi, è la nostra vita, sono le persone che ci feriscono e che ci amano, sono i fallimenti quanto i successi, è la felicità e la tristezza, quindi determina chi siamo. Più si è leggeri, meno si ha vissuto, però forse a volte, le dissi, bisogna lasciare cadere qualcosa affinché quest’ultima non ci soppianti.

A quel punto lei si fermò attonita, poi continuò a ribattere alle mie constatazioni dicendo che la pesantezza ci avvicina alla terra e quindi ci rende terreni, reali;  la  leggerezza invece  ci permette di spiccare il volo e di allontanarci dal nostro essere terreni, che  più siamo leggeri più  le nostre azioni sono meno reali e che quindi quel fardello per lei non era un’oppressione, una punizione, ma la dimostrazione che aveva vissuto e perderlo avrebbe significato perdere se stessa.

Non appena ebbe finito di pronunciare l’ultima frase, compresi che era troppo ferma nelle sue convinzioni, che non avrei potuto fare niente per convincerla del contrario, così andai via senza ribattere a mia volta, ma il giorno dopo mi recai ancora lì, alle cinque in punto, dove la congiura di sentimenti architettonici suscita fascino, lei non c’era più.

Marianna Borgia