Eddunque miei cari compagni, tempo è giunto di raccontar una nova storiella la quale narri de’ le disgrazie e de’ le furbizie di una giovin donna che di nome facea Sabella. Questa, assieme a li familiari suoi e a la sua padrona di casa, gravida di lagrime e affanni piagnea la morte del suo pover fratel Cecco, trapassato sanza preavviso alcuno per un ignoto e fulmineo malanno. Eh che disgrazia questa! Un giovinetto dal viso ancora imberbe e che non avea avuto il tempo di cognoscer lo primo amore, avea già avuto maniera però, di cognoscer, per la modica cifra di due monete auree, lo viso di Caronte e di esser scorto all’altro lato dello fiume. Li familiari raccolti si eran in un sacro silenzio attorno allo feretro del malcapitato. Quanto ingiusta e indecifrabile sei Sorte che gravi su di noi inesorabile! E quanto grave ancora questa sorte saria se non fusse che Cecco tutto potea esser tranne che morto. Il soffio vitale a quel corpicino era troppo legato per poterlo lassare. Le gote sue, vermiglie e vivide, eran state manomesse da un trucco che usan le nobil signore pe’ esser pallide nell’apparenza. Ma la ragion prima per cui quel giovinetto di Cecco si trovasse ne la cassa mortuaria pur essendo ancor poco smorto, va ricercata in una para di giorni addietro.
Di Sabella niuno potea afferir che ella non fusse una donna onesta, savia e laboriosa e che ella, seppur ricca di virtù, arrischiava di ritrovar ne la dispensa un sol tozzo di pane. Le difficultà che ella si ritrovò a dover superare furon sì gravose che sempre più a fatica dovette pagar a la padrona de la sua dimora i danari che richiedea per l’affitto. Sì picciol si fecer le vane speranze di lassar la povertà col sudato travaglio, cosicchè una vita degna di tale nome condurre potesse, a tal punto che disperata e sanza un soldo, Sabella spiantata, prese la dicisione di far ritorno alla dimora del padre e la sua di abbandonar, per non pagar più le senserie de l’affittuaria. Sabella a quella espresse cotale intenzione ma in ancor più amare si trasmutarono le lagrime sue quando apprese da l’affittuaria che per niuna ragione o maniera ella avrebbe potuto lassar la dimora, poiché la mancata riscossione de la sua permanenza avrebbe apportato non pochi impicci a la padrona di casa. Risaputo è che lo bisogno spigne anche gli animi più alti sino al più profondo abisso: ‘l santo in diabulo cangia, il fanciullo in brigante, la savia in fanfarona e l’omo onesto nel briccone della peggior ispecie. E per tale cagion l’alma della giovin Sabella la diritta via smarrì per seguir l’ingegno e l’astuzia. Costei a tempo opportuno rimembrò una clausola de’ contratto, il così recitava: “A iudicio l’impegno si potea dir soluto da ogne dover sol e soltanto nel caso in cui fusse sopravvenuto accidentalmente e improvvisamente lo decesso di un parente, sanza importanza alcuna di che grado di parentela esso fusse, ma quel che bastava per minar ‘l patrimonio familiare”. Mossa da malevole ingegno Sabella lesta lesta a la dimora del padre piombò, e con affanno e arruffata chioma alli parenti suoi così si rivolse:
– “Cari familiari miei chi di voi valia ha assai di trapassar oggi dì per cosa buona e giusta?”
I guardi esangui dei suoi affetti contro le si puntaron tra maraviglia e sbigottimento, col comune pensier ch’ella fusse ammattita e che di uno bravo le necessitasse ‘l compatimento. Ogne dubbio fu presto risoluto quando Sabella gli intricati lacci dei pensier suoi dispiegò: dacchè il sol modo di divenir libera dagli impicci dell’affittuaria era quello di aver un familiare improvvisamente morto e sepolto, ella macchinò d’ allestir el funerale con tanto di garofani e colla cassa mortuaria in frassino che ‘l nonno, ancor vivo, s’era fatto fare dal faligname per averla già pronta in caso di necessità. Ma chi dei parenti di Sabella disposto sarebbe stato a recitar una tal profaneria? Suo padre, di indignazione rigonfio e in somma misura scaramantico, subitamente non si concesse all’impresa per paura che tra un imbroglio e l’altro, si sarebbe ritrovato pria del tempo già bello e trapassato di fronte la sua decrepita trisavola. La madre, secondo quanto ella stessa disse, in grado non ritenea sé stessa di sostenere una simil impresa giacchè nelle situazioni di serietà era solita generare fragorose risa. Acciò dunque, al fratello minore che di nome facea Cecco questa sorte toccò. All’indomani della trovatona, Sabella da l’affittuaria sè dirisse per comunicarle con rammarico enorme l’accidente appena capitato. L’affittuaria, una volta apprese le ultime vicissitudini della giovine, diffidendo colla linguaccia biforcuta disse:
“Mi rincresce che suo fratello abbia patito una tal disgrazia, ma pe’ quel che vale io ho di bisogno de la carta iscritta che attesti l’avvenuto decesso”. E Sabella:
“Se di fronte allo dolore mio, a le mie parole non presta fede, la porterò con me a veder con suoi istessi occhi il mio pover fratel che ancor agghindato sta ne la dimora che Vostra Signoria di abitare mi permette.”
E per questi fatti appena narrati ci ritroviam ne la condizione in cui tutti attorno alla salma di Cecco mantenevan un rigoroso silenzio, fino a che l’affittuaria, quasi rammaricata per esser stata malfidente, chiese alla madre di Sabella:
“Oh Santo Iddio, quale male afflisse il poveretto ad una sì precoce età?” E la madre:
“Eccesso di sangue in corpo, col salasso i medici tentaron di rinsavirlo e con un’operazione ai bracci, ma essi trascurarono il fatto che Cecco sotto il segno di Gemini fu partorito.” La conversazione a sermone non tardò a divenire e più il tempo passava più arduo era finger infermità, perciò Cecco calata l’attenzione mosse l’arto e l’affituaria in allerta gridò:
“ El morto se move, se move!” subitamente il padre:
“’l corpo di un ch’è per salasso trapassato, si move per causa di alcuni ispasmi di assestamento.”
E convinta a malapena l’affittuaria, si andò avanti pe’ altre ore a la veglia sacra tra silenzi e sermoni. Ma la cassa del nonno, dentro la quale stava ora infilato Cecco, su ne la soffitta era stata per un bel pezzo fra polveri e insetti del ligname. Avvenne che uno di questi piccioli insetti giocondo stesse passeggiando ne la cassa, fin quando sbagliata l’istrada entrò su per la manica del morto che si levò su con una funesta bracciata e gettato un urlo, dell’affittuaria scatenò il motto:
“Quarantotto! Questo è un morto che parla! Se costui è esanime allor io son talmente stolta e scervellata da ammette dinanzi a tal evidenza che voi nel farmi una furbata state cercando di incappare.”
E questa volta fu il distratto a riparar la distrazione. Così con sfacciataggine, Cecco, col busto diritto e li occhi sgranati, avanti la farsa portando:
“Costei dice il vero, io fiato. Ma non è un impostore a proferir parola, ma uno spirto in collera che giammai troverà la pace etterna se questa casa non verrà lassata dall’alma di Sabella.” Proferite queste parole il defunto supino ricadde e l’affittuaria che di fondo era una donna divota e credente, colla paura di qualche fattuccherìa, alla giovine concesse lo diritto di cambiar dimora. Il funerale a compimento fu portato, tant’è che in accordo con un frate dominicano ‘l feretro fu trasportato a mezzodì ne la chiesa di San Niccolò l’Arena. E fu così che si compì uno strabiliante miracolo: un giovine passato pe’ la porta principale dello Monastero da morto, da la porta di dietro uscì vivo e risorto.
Serena Bonanno