Venne ‘l turno della gentil Berenice che di canzonar li compagni suoi de la brigata valìa ne avea aiosa. Pensosa e mutola, immaginosa de la novella che avrebbe potuto narrare per maravigliare i giovinetti, se ne era stata sino a lo vespro del giorno pregresso. Ella si ricordò de la vicissitudine di un tal populano di nome Segestàn noto pe la sua fama di sciagurato e pe li debiti che questo si era caricato. Costui, nonostante un omo per bene e di buon costume fusse, malauguratamente allocco, sempliciotto e bonaccione, vittima di burle e beffe spesso fu. Corbellarlo era un’impresa talmente ardua che un mercatante li vendea del vino infinocchiato al prezzo di quel pregiato e, altre volte, ‘l finocchio ce lo mettea Segestàn stesso. Periodo de carestia per le strade de la cittade gettava el passo col piè più veloce d’un leprotto lesto e poiché l’omo pur sempre di caduche carni fatto è, lo ventre bramoso e reclamante di primizie e scorpaccerie gola facea. Dagli usci gridi e piagnistei di fanciulli odir si potea, tant’è che en lontananza di buoi, vacche e bestie a paragon lo mugliare soave e gaudia cosa per l’orecchio appariva. Segestàn adunque girandolando obnubilato da li piacer dell’otre ne la Taverna del Bislacco capitò donde volti di mascalzon, donne sgarziglione e altrettanti ciuchi di alterate fattezze dinanzi, e ben presto nel mezzo, si ritrovò. e fra l’una e l’altra cosa un barattiere la mano gli tese e a giocar promettendogli enorme riscossa con sé se lo portò. Ahimè nota cosa è che Madama Fortuna bendata e come la luna è mutevole, e ‘l nostro Segestàn perse in un paio di giri tutto ciò che possedea, perciò costernato raccattò il suo giaccone. Ma lo agguantò veloce un tal e in una stradicciola buia lo scortò. Costui era un mercatante proveniente da Levante e allo sciagurato in lacrime una tavoletta di legno allungò. Di tale oggetto si dice che fusse consacrato ad una dea de le vecchie riligioni e che al proprietario giovasse apportandogli nient’altro che immense fortune e accidenti fausti. Segestàn al solo udir le favelle raccontate dal marcatante dell’est sbiascicante nella pronunzia, accettò il talismano e nella Taverna del Bislacco si rificcò, fin tanto che in una para di giri di mano, e punta di qua e rilancia di là, ciò che perduto avea riacquistò se non per tre, anzi dieci, volte tanto. E quel farlocco di Segestàn se ne uscì lindo lindo con le tasche ricolme di scroscianti danari ed un sorriso sornione sul volto inebriato dallo vino, mentre da un muro ad un altro de la cittade nostra si reggea sghignazzando per la furbata. Ma ciò che Segestàn ancora ignorava era del talismano la natura stessa e la lunga notte che gli attendea. Egli cominciò a batter l’istrada del ritorno verso la dimora sua, fin quando girando a manca l’angolo di un picciol quartier, la coda di un cagnaccio grosso e sudicio calpestò: la belva ferina dal suo sonno si destò, e vista la causa del dolore suo in tutta fretta verso l’uomo mosse celeri le zampe. Segestàn alla fuga si diede, correndo come un matto con le bisacce colme dell’oro scrosciante, ma un grido acuto lanciò nel momento in cui il rabbioso alano gli addentò con furore il suo grosso deretano. L’uomo dolente lo colpì audacemente col talismano di legno e beccato sullo muso il cane scacciò. Segestàn passando la mano sullo fianco cercò d’ovattar lo dolore e si poggiò per un’istante per riacquisire ‘l fiato sprecato per la gran maratona, ma lancinante intervenne altrettanta dolenza quando con un baston un vecchio ubriaco lo colpì diritto sulla capoccia che di capelli mostrava carenza. Offuscata divenne la vista, molli le ginocchia e corrucciata la fronte, ma sopravvenne ne la mente dello sciagurato el dubbio impellente circa la causa per cui egli si fusse meritato un cotal gesto di violenza e villanteria. Ma riaperti li occhi immediatamente il motivo comprese: le tasche da grevi a leggiere si tramutarono; quel malcapitato del suo oro era appena stato deprivato! Furibondo il nostro Segestàn cominciò ad imprecar contro le stelle, la luna e l’intera volta celeste. Ma non si sa per qual senno egli di ritornar alla Taverna per chieder un risarcimento al mercatante concordò tra sé e sé. Una volta giunto in loco verso quello la sua ferocia indirizzò, innalzando lamentele per l’inefficacia del talismano che tosto con ingenti lagrimon gli avea solo recato dolor. Ma disgraziatamente i due ai ferri corti vennero giacchè dopo discussioni di elevatissimo livello retorico da far invidia a Cicero , Segestàn apprese dal marcatante che ‘l talismano fu uno dei manufatti di un antico e divoto rito sacrificale e chiunque afferito avesse da tal mucchietto anche tavoletta una sol, su di sé avrebbe indirizzato li peggio accidenti. Perciò non vi era niun’altro modo per scacciar lo malaugurio se non riportando ‘l talismano dove si trovavan li altri: in su la lanterna della sommità del Monastero di San Nicolò l’Arena. Dinanzi a tal notizia il nostro Segestàn, sanza preoccupazione alcuna e sanza il minimo riguardo per lo sonno altrui, si fiondò verso lo monastero detto dei Benedettini. Ma avvenne che pe la strada una carrozza con due ronzini impazzava in gran furia col nocchier che frustava le bestie, ma stavolta ravveduto, Segestàn facendo un salto da ranocchio sullo bordo de la strada balzò. Questo fatto una bella e straordinaria cosa saria se non fusse che non appena quel citrullo dinanzi a sé un passo gettò, come un sacco di patate per intero nello scolo pe’ le acque sprofondò. Ma per via del suo monumental pancione bloccato rimase sol da la cintola in giù, con le gambette penzolanti che annaspavan. E così come un ebete con le palme degli arti su la strada restò fino all’albeggiare dello giorno seguente, quando due contadin, che stavano andando a guadagnarsi lo pane, di peso fuori lo trascinarono. Infreddolito ed avvilito Segestàn zoppicando continuò il suo cammino fin quando venne dinanzi lo pesante porton dello monastero. Vide il giardino esterno tra statue in marmo, profumati fior e il cinguettio di fringuelli e salendo la lunga scalinata dai passi del tempo logorata, nel capoccion del frate che sorvegliava l’accesso pe la cupola si imbattè. Necessario fu per salir sulla sommità pagar un picciol tributo in danari: “Mi deve sei danari per entrar ne la lanterna, tre danari per testa” pronunziò lo frate. Udite cotali parole Segestàn esasperato sanza pudor, sanza rossor, né vergogna ebbro di rabbia disse:
“Messere non mi parrebbe d’esser né cerbero, né Giano o chicchessia, giacchè uno è il capoccion pelato che appresso mi porto, non due”.
“Messere non mi parrebbe d’esser né cerbero, né Giano o chicchessia, giacchè uno è il capoccion pelato che appresso mi porto, non due”.
Serena Bonanno