Si potrebbe erroneamente pensare – per assonanza fonetica – che il termine hikikomori sia un nuovo tipo di sushi o, più in generale, un nuovo piatto della cucina giapponese esploso negli ultimi tempi nel Bel Paese. In realtà questa parola non ha nulla a che vedere con il sushi: hikikomori è una parola della lingua giapponese che può essere tradotta letteralmente come “stare in disparte, staccarsi” e indica una persona – solitamente un’adolescente o un adulto sotto i trent’anni – che decide volontariamente di “staccarsi” dalla società, di isolarsi totalmente da ciò che lo circonda (il cosiddetto social withdrawal, ossia ritiro sociale). Non è un caso che a questo fenomeno sia stato assegnato un termine giapponese: infatti, esso è nato negli anni ‘80 proprio nel paese del Sol Levante per poi diffondersi nel corso degli anni in Europa e negli Stati Uniti.
Il profilo tipico dell’hikikomori è quello di un giovane di estrazione sociale medio-alta, solitamente figlio unico, con entrambi i genitori laureati (la madre estremamente protettiva nei confronti del figlio, il padre spesso assente per lavoro) che subisce forti pressioni psicologiche sia dai genitori, che lo vorrebbero vincente e di successo, sia dalla società, fortemente competitiva e poco comprensiva verso chi mostra le proprie fragilità. Dunque, non deve stupire nemmeno il fatto che questo fenomeno sia nato proprio in Giappone, paese nel quale da una parte troviamo un tasso di disoccupazione giovanile molto basso, dall’altra parte, in quello stesso paese, sbagliare continua ad essere considerato “diabolico” – in opposizione al motto latino errare humanum (non) est. Basti pensare che nella lingua giapponese le parole timidezza e vergogna vengono indicate con lo stesso termine, confermando così come nella società nipponica sia predominante quell’atteggiamento culturale secondo il quale chi si è insicuro o impacciato deve vergognarsi.
Gli hikikomori sono giovani che hanno deciso di chiudere il mondo fuori dalla loro stanza: non escono mai fuori dalle pareti della loro camera, non fanno entrare la luce del sole dalla finestra, non pranzano con i genitori; il loro unico contatto con il mondo è dato dall’(a)buso di internet. Infatti, gli hikikomori sviluppano una forte dipendenza nei confronti dei social network e di internet in generale poiché essi rappresentano l’unico contatto, l’unico ponte nei confronti di quel mondo che li spaventa e li attrae nello stesso tempo.
Il fenomeno hikikomori, ormai diffusosi anche in Italia e in gran parte dei paesi occidentali, non deve essere assolutamente confuso con quello dei NEET (acronimo di Not in Education, Employment or Training): pur essendoci molte somiglianze tra i due, quest’ultimi si differenziano dai primi soprattutto perché mantengono una vita relazionale normale e non si isolano dal mondo esterno.
Le ricerche sui giovani hikikomori sono proliferate soltanto nell’ultimo decennio e tutt’oggi non è ancora formalmente riconosciuto come un disturbo da parte del DSM-5 poiché non ne sono stati definiti i criteri diagnostici. Di conseguenza, non esiste una cura definitiva ma vengono utilizzate varie strategie terapeutiche, di solito un percorso di psicoterapia individuale abbinato ad un lavoro di reinserimento sociale e ad una terapia familiare, nonché ad alcuni psicofarmaci, solitamente antidepressivi.
Il fenomeno hikikomori, recentemente balzato alle cronache per essere stato definito una devianza da parte della neopremier Giorgia Meloni, dovrebbe far riflettere tutti noi giovani (e non) poiché esso rappresenta l’apogeo di una società malata, della sua feroce competitività e della sua insaziabile brama di successo. In un mondo che corre veloce, che ci vuole perfetti e affamati di gloria e di potere; in un mondo in cui i successi vanno condivisi, in cui è più importante postare la foto di quel momento anziché viverlo intensamente; in un mondo che non concede alcun margine di errore, in cui tutto dipende da te, in cui se hai successo è merito tuo e se sbagli è colpa tua… nasce spontaneo il desiderio di sottrarsi da questo circolo vizioso ma soprattutto nasce spontaneo il bisogno di chiudere la porta per lasciare il mondo fuori dalla stanza.
Francesca Vernuccio