Il Mercato del lavoro italiano e le dinamiche aziendali che relegano la figura femminile ad una posizione asimmetrica ed impari rispetto a quella maschile hanno spinto sociologi e politici a studiare la natura del fenomeno da prospettive differenti per trovarne risoluzione.
Un recente discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della festa della donna dello scorso otto Marzo, analizza l’oggettiva predisposizione delle donne, relativamente ai risultati conseguiti, allo studio universitario e riporta una percentuale più bassa di NEET donne rispetto agli uomini (benché i numeri rimangano comunque impietosi rispetto alla media femminile europea): tutto ciò è sufficiente affinché si possa definire ineguale il trattamento di genere ed il presidente auspicava, pertanto, un futuro migliore per le donne nel mercato del lavoro.
La sensazione è che le recenti politiche volte al raggiungimento della parità di genere sostanziale unitamente a quella formale (come recita l’Articolo 3 della Costituzione), passino da tentativi maldestri nel settore aziendale (le quote rosa) a da trovate elettorali volte al “washing” (le ultime elezioni del presidente della Repubblica hanno mostrato una tendenza generale a cercare spasmodicamente una figura femminile) che danneggiano intimamente la figura femminile e ne svalutano il merito relegandola, ancora una volta, alle dipendenze dell’opinione maschile imperante.
Io penso che esista un profondo problema culturale che spinga la società italiana (ancor più nel Mezzogiorno) a credere impossibile una eguale redistribuzione delle figure manageriali tra uomo e donna o, ancor peggio, a ritenere che una donna possa essere meno affidabile e adatta (mi riferisco alla tipizzazione di attributi ritenuti tipicamente maschili della leadership quali ad esempio la sfrontatezza, la freddezza) ad occupare una credibile posizione di comando. Tali fattori vanno ricercati nelle dinamiche sociologiche che spiegano gli orientamenti di popolo: le teorie di Max Weber presentano una predisposizione all’azione soggettiva dei popoli protestanti (che hanno dato genesi al Capitalismo) ed al riconoscimento del merito soggettivo che supera le barriere imposte dalla sociologia strutturalista (dalle teorie di Durkheim e Marx) e che mira, almenoin teoria, al trionfo del merito e della tecnica (nell’accezione greca di “téchne”, saper fare). Forse questo potrebbe spiegare il motivo per cui dai paesi dell’Europa centro-settentrionale siano emerse le prime donne di alto spessore manageriale (Angela Merkel, Margaret Thatcher, Ursula von der Leyen, o la lunga tradizione di presidenti donne islandesi, per citarne alcune) nel campo politico. Ciononostante, anche i paesi vincolati da dinamiche strutturali più rigide sono riusciti, nel corso dei decenni, a promuovere dei modelli manageriali femminili di alto riferimento etico ed economico (Luisa Spagnoli in Italia).
A proposito dei differenti approcci alla materia, un modello di “female management” riporterà poche differenze rispetto ad un “male management” per quanto possa ritenersi più etica e morale (lo è, di fatto) la figura femminile nelle dinamiche quotidiane rispetto a quella maschile. Pensiamo, per argomentare tale posizione, alla celebre teoria dei “Colletti Bianchi” di Edwin Sutherland secondo la quale sia il “capitalismo criminale” a condizionare la condotta dei soggetti che ne entrano attivamente a far parte: non è quindi la modesta appartenenza sociale (vengono così smentite le teorie di criminologia per le quali la devianza fosse relegata ai contesti sociali più bassi) a delimitare le realizzazioni dei crimini ma l’appartenenza ad un contesto qualsiasi, anche di vertice, ad imporre delle regole ascritte capace di condizionare l’attività dei soggetti i quali possono certamente scegliere se delinquere o meno. Si immagina pertanto che le donne al comando verrebbero spinte ad assumere comportamenti e condotte simili a quelle maschili, alle quali assistiamo da decenni, se costrette a muoversi all’interno dello stesso “recinto sociale”.
La vera rivoluzione dovrebbe, invece, riuscire a scardinare le vecchie dinamiche sociali (l’introduzione del tema della professionalità ne è una prova) e proporre modelli eticamente innovativi et per le donne et per gli uomini: la lotta volta alla parità di genere deve essere indotta dalla lotta per una nuova idea di management in tutte le organizzazioni complesse (private, pubbliche e politiche) volta alla reale meritocrazia (aldilà del mero genere), all’educazione all’uguaglianza ed all’intesse verso una concezione di leadership svecchiata, revisionata e finalmente depauperata dai suoi elementi negativamente vincolanti.
Matteo Catania