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Mattarella bis, tecnocrazia e “democrazia del disincanto”: l’ultima elezione del Capo dello Stato

A qualche giorno dall’elezione al secondo mandato del già Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è tempo di tirare le somme di quanto accaduto nella settimana che ha visto gli attori politici impegnarsi per il settennale appuntamento. L’elezione del Presidente della Repubblica non rappresenta mai solo la votazione da parte dei membri del Parlamento del Capo dello Stato. Esso è un momento di bilancio, di confronto, di sintesi. È una prova, indiretta o diretta, della salute della democrazia. Gli attori politici devono fare i conti con quanto seminato all’interno dell’arco temporale e spaziale della legislatura e con quanto seminato nelle realtà locali e regionali.

Infatti, analizzando l’appuntamento in termini meramente elettorali, nel computo finale dei votanti giocano un ruolo fondamentale anche i “grandi elettori”, delegati dei parlamenti o consigli regionali chiamati a esprimere la loro preferenza. Ma procediamo con ordine. Il prospetto di quest’anno, datoci dall’ultima legislatura eletta nel 2018, appare variegato, incerto, ancor più dopo le vicende che in questi anni si sono succedute e che hanno visto le forze politiche protagoniste di una delle stagioni più turbolente degli ultimi anni, Covid-19 incluso. Guardando dall’alto l’emiciclo e facendo un confronto con i risultati delle elezioni politiche (alla Camera) del 2013, si può notare come la coalizione di centrosinistra sia in calo di quasi sette punti percentuali e la coalizione di centrodestra abbia guadagnato quasi otto punti percentuali. Il vero protagonista, però, è sicuramente il Movimento 5 Stelle che passa dal 25% al 32% guadagnando sette punti percentuali. I risultati si mantengono proporzionali anche per quanto riguarda il Senato. Di seguito il prospetto in base alla retribuzione dei seggi.

Ad incidere sul risultato sicuramente anche la legge elettorale (comunemente nota anche come Rosatellum) che prevede una ripartizione percentuale dei seggi sia secondo un sistema maggioritario che secondo un sistema proporzionale. Il rischio di una legge che prevede un sistema elettorale misto è proprio quello di dar vita ad un risultato politico-parlamentare che non assicuri governabilità (data la difficoltà per i partiti e/o le coalizioni di raggiungere la maggioranza) ma (forse) una rappresentanza più particolaristica. Ai lettori l’ardua sentenza.

Tornando al prospetto e facendo qualche passo indietro nel tempo per analizzare gli avvenimenti più sostanziosi di questa legislatura (governo Conte I nel 2018, governo Conte II nel 2019, epidemia da Sars-Cov-2 nel 2020, governo Draghi 2021) comprese le elezioni regionali, è facile capire che le rappresentanze parlamentari non rappresentano più lo specchio indistinto della volontà popolare. Sia per quanto riguarda le coalizioni, sia per quanto riguarda i singoli partiti, in questi quattro anni gli equilibri e i rapporti di forza sono cambiati molteplici volte. Motivo per cui arriviamo ad una settimana dal voto per l’elezione del Capo dello Stato con circostanze che, probabilmente, nessuna delle forze e degli attori politici sono riuscite a interpretare.

Il problema principale, al di là dell’elezione di una figura di altissimo profilo e che rappresenti l’Unità nazionale, è sicuramente uno: mantenere la tenuta dell’esecutivo al fine di non incombere in spiacevoli inconvenienti (vedi la caduta eventuale del governo, scioglimento delle Camere, indizione di nuove elezioni, campagna elettorale) che, in un periodo storico confuso tristemente accompagnato e causato da una delle epidemie globali più temibili e terribili con cui il sistema-mondo abbia fatto i conti fino ad ora, sarebbero difficilmente controllabili. A capo dell’esecutivo vi è però un certo Mario Draghi che, sicuramente, non ha bisogno di presentazioni tantomeno da questo spassionato commento. La sua figura giocherà un ruolo fondamentale per tutto il periodo delle trattative come peso e contrappeso di una bilancia di cui possiamo dire lui stesso è il centro. Data la maggioranza relativa come coalizione, il centrodestra possiede l’onere della prima battuta in questo gioco di rimpalli. Il primo nome nella corsa verso il Colle è, quindi, Silvio Berlusconi il quale rappresenta l’espressione naturale da parte delle forze di coalizione. Creatore del centrodestra, la sua figura, il suo ruolo, è principalmente uno: contare i numeri presenti in Parlamento disposti a sostenere una candidatura della coalizione a Capo dello Stato. Operazione in parte riuscita ma non esaustiva poiché il problema del Presidente è uno: la sua persona, il suo curriculum è altamente divisivo e la condanna delle forze di centrosinistra in assonanza con il M5S lascia intendere che non sposeranno mai questo sodalizio. L’ex Cavaliere ritira quindi la sua candidatura per consentire al Parlamento di trovare un nome che rappresenti la sintesi e garantisca sicurezza e autorevolezza al fine di riprendere al più presto i lavori. Si parte, dunque, e il primo giorno di votazioni si conclude con un plebiscito di schede bianche. Il fantasma della formalmente dichiarata indisponibilità di Sergio Mattarella e quello delle aspirazioni del Presidente Draghi fa sudare freddo entrambi gli emicicli. La responsabilità di eleggere un uomo o una donna che dia nuovo respiro alla politica italiana, vessata da tempo ormai per la sua incapacità di esprimersi e colpevolizzata di fare sempre ricorso alle figure ormai al popolo familiari dei tecnici, pesa come un macigno e gli attori lo sanno bene. Infatti, mentre l’ipotesi di un Mattarella bis rimane sopita ma mai esclusa del tutto, il tentativo di arginare una totale deriva tecnocratica è concreto: ridimensionare la figura dell’ex Presidente della BCE garantendo comunque la stabilità del sistema istituzionale non è però una sfida semplice. In un contesto, quindi, in cui le forze politiche non riescono a trovare un accordo sui nomi (che sembrano sempre più un’estrazione al Lotto) e nel quale sembra che stiano inconsciamente combattendo sul terreno di una velata (ma forse concreta) crisi delle istituzioni liberali in cui il Parlamento Sovrano non sembra nelle possibilità (e nelle capacità) di poter decidere chi dovrà essere il nuovo Capo dello Stato poiché è necessario (ma non dovrebbe) fare i conti con l’Esecutivo, un nome, una donna (quasi come la Beatrice di Dante o la Laura di Petrarca) sembra rappresentare uno spiraglio di luce e speranza per districare questa complicata matassa politico-istituzionale. Proposta al tavolo delle trattative insieme a una rosa di nomi dalla coalizione di centrosinistra e poi divenuta candidata apparente del centrodestra, Elisabetta Belloni (Direttore dei servizi segreti, curriculum ineccepibile, al servizio dello Stato da sempre) diventa subito il volano di una partita infinita di badminton venendo bruciata prima dello scoccare della mezzanotte (manco fosse Cenerentola) grazie anche e soprattutto alle dichiarazioni stampa di un certo Matteo Renzi il quale ne configura, con toni molto poco pacati, un profilo altamente inadeguato. Che il Direttore Elisabetta Belloni sia stato specchio per le allodole o veramente, per qualche ora, abbia rappresentato un’alternativa concreta per concludere di comune accordo queste elezioni non lo sapremo mai.

Sicuramente abbiamo saputo e capito che due figure tecniche, nonostante d’altissimo profilo, non possono rappresentare la via definitiva per la rappresentanza dei due organi politici più importanti dello Stato. A distanza di una notte, comunque, si trova la quadra. L’unica possibile probabilmente ma anche quella (forse) più deludente. Sergio Mattarella sarà rieletto Presidente della Repubblica. Un uomo, un politico (forse l’unico che può essere garante dell’equilibrio) di altissimo profilo che ha servito il Paese dimostrando di possedere una genuina eleganza istituzionale e rispetto politico che, al contempo, con la sua rielezione, dimostra le difficoltà insormontabili che la classe politica contemporanea ha accumulato in questi anni travagliati. “Tutto cambia per non cambiare mai”, abbiamo sentito in questi giorni, ma, forse, non si è propriamente definito il reale cambiamento di cui necessita l’Italia. Il ricorso ai tecnocrati e alle soluzioni politiche servite in base al curriculum (è ovviamente un ossimoro) dimostrano sempre di più come la politica ha bisogno di tornare ad essere motore istituzionale, culturale, sociale del Paese. La connessione con il “Paese reale” appare sempre più labile e la fiducia istituzionale crolla sempre di più.

Le nuove generazioni, sempre menzionate ma mai, se non in alcuni casi, realmente considerate hanno il dovere categorico di interessarsi nuovamente e in maniera critica alla cosa pubblica poiché l’esclusivo confronto da tastiera, l’assenza di dibattito e di passione genera disincanto e il disincanto produce una realtà alienante in cui non esiste pluralità e colore ma tutto diventa sempre più monotono e grigio. La “democrazia del disincanto” è forse il mondo che saremo condannati a vivere ma sugli errori e le negligenze delle generazioni precedenti dovrà nascere la volontà di costruire le fondamenta di una realtà in evoluzione, giovane. Questa corsa elettorale non ha rappresentato la vittoria del Parlamento bensì la conferma che i tempi per cambiare possono essere maturi.

Luca D’Emilio

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