“Non meditare perché ti fa bene. È molto più importante di così.” dice Sam Harris, neuroscienziato e filosofo autore di numerosi best-seller sulla “spiritualità senza religione”.
Fa riferimento sia ai benefici “spirituali” della meditazione, sia a quelli “materiali”. Infatti, da numerosi studi scientifici emerge come la meditazione sia una pratica benefica dall’elevatissimo potenziale: pare che bastino solo 10 minuti al giorno per provocare cambiamenti significativi nel cervello.
Pensiamo, per esempio, ad un popolare studio del 2006 sui tassisti londinesi: si è osservato che hanno un ippocampo (l’area che processa le informazioni sullo spazio) molto più sviluppato rispetto alle persone normali e che questo è proporzionale ai loro anni di esperienza. Quanti più anni hanno guidato per le strade di Londra, tanto più grande è il loro ippocampo. Proprio fisicamente più grande, come un muscolo allenato che si ingrossa. Pare infatti che imparare la rete stradale di una metropoli come Londra stimoli la neuroplasticità, ossia spinga il cervello a cambiare fisicamente la propria struttura.
Anche per la meditazione si sono osservati cambiamenti nella struttura del cervello, in particolare nel funzionamento dell’amigdala (l’area che processa le emozioni). Uno studio del 2018 ha diviso i partecipanti in due gruppi: il primo avrebbe praticato la meditazione, il secondo avrebbe fatto tecniche di rilassamento. Quando poi messi a confronto, il gruppo della meditazione processava le emozioni in modo diverso: la loro amidgala si attivava molto meno durante le emozioni negative e provavano meno ansia. La cosa interessante è che il cambiamento persisteva anche dopo la meditazione, prova del fatto che non era collegato ad uno stato temporaneo di rilassamento, ma ad un cambiamento strutturale del cervello.
Bisogna infatti chiarire un errore comune: la meditazione non è una tecnica di rilassamento, ma si può pensare ad essa come la ricerca del perfetto equilibrio tra attenzione e rilassamento. La meditazione Vipassanā (in lingua Pāli: consapevolezza, vedere chiaramente), la più studiata dalla scienza, consiste esclusivamente nell’allenare la presenza. Non si compie alcun esercizio, non si ripete alcun mantra (tipo il famoso “Om”, la sillaba sacra di Induismo e Buddhismo). Bisogna anzi cercare di non farsi distrarre, di non occupare la mente con qualcosa, di non inseguire un pensiero. Bisogna diventare osservatori dei propri pensieri, notarli e distaccarsene, operando quello che in psicologia si chiama disidentificazione o defusione. Non identificarsi con un pensiero significa per esempio capire che qualcosa ci ha provocato rabbia, ma che noi non siamo rabbia e non dobbiamo agire per rabbia se non lo vogliamo. Questa capacità di riconoscere il proprio stato mentale, cruciale nella pratica meditativa, in psicologia si chiama metacognizione.
Gli studi simili a quello sopra citato sono innumerevoli e puntano tutti nella stessa direzione: la meditazione ha resistito alla prova del tempo perché funziona. Basti pensare che la meditazione Vipassanā, che ancora attrae molte persone, ha qualcosa come 3.000 anni di storia. Ben poche altre creazioni umane possono vantare una simile longevità.
“Perché dire che funziona?”, si potrebbe obiettare. “Non sarà un’affermazione azzardata, trattandosi di qualcosa connesso alla spiritualità, dunque soggettivo?”
Questo è il punto. Non parliamo soltanto di benefici spirituali. La meditazione non richiede nemmeno di credere a qualcosa di particolare, di seguire determinate regole o di condividere una visione della vita. Un neuroscienziato o un monaco buddhista potrebbero dire la stessa cosa: non devi credere, devi solo provare.
… e io ho provato. Per 90 giorni consecutivi. All’inizio era un corso di 10 giorni offerto gratuitamente da uno psicologo e divulgatore. Poi altri 10 giorni di meditazione sul tema dell’accettazione (all’interno della pratica si possono inserire esercizi mentali specifici). Infine, mi sedevo a meditare in qualsiasi contesto, da solo o in compagnia. A volte 10 minuti, a volte 20, a volte soltanto 2 minuti e poi una seconda meditazione appena avevo tempo. Per qualcuno la mattina inizia dopo il caffè… per me, iniziava dopo la meditazione. Non sempre mi rilassavo, a volte ero in ansia o non vedevo l’ora di finire e dedicarmi ad altro. Altre volte provavo un benessere così profondo che non avrei mai smesso di meditare. È stato un po’ come un qualsiasi allenamento, a volte andava male e altre volte bene, ma anche quando ero insoddisfatto di me stesso guardavo il lato positivo: anche oggi mi ero allenato. Dovevo solo avere pazienza. Nel frattempo ho letto due guide “atee” sulla meditazione che mi hanno aiutato ad avere l’approccio corretto (soprattutto a comprendere che le mie difficoltà erano normali, altrimenti avrei pensato di non essere adatto), oltre ad un libricino buddista e il meraviglioso best-seller “Waking up” di Sam Harris, che pur non essendo una guida alla meditazione ne parla continuamente, spaziando tra vari temi connessi a mente, coscienza e spiritualità. È utile anche aggiungere che non sono particolarmente vicino allo stile di vita buddhista: non medito per distaccarmi dalla vita, dal desiderio o dal Dukkha (Pāli: sofferenza). Non credo nell’illuminazione, nel ciclo delle rinascite del Saṃsāra o in alcun altra convinzione religiosa. Per me sono tutte storie molto affascinanti ma non contengono più verità del mito di Pigmalione o di quello di Alfeo ed Aretusa – narrazioni che hanno a che fare con la natura umana, più che col sovrannaturale. Medito perché sono curioso di vedere com’è, tutto qui.
La notte tra 50 e 51esimo giorno, mi sono svegliato con un ricordo strano. Avevo litigato con qualcuno, ma invece di farmi trasportare dalla rabbia avevo preso consapevolezza di essere infuriato e mi ero seduto ad osservare il mio respiro pesante e affannato, le mie mani tremanti. Osservavo come la rabbia mi stava cambiando e in quel preciso istante riprendevo il controllo, come quando ci si accorge di essersi distratti e si torna attenti. Ero come un marinaio che trovandosi dentro una tempesta stringe in mano la catena dell’ancora e sa che ne uscirà. Provavo una piccola serenità dentro di me e mi aggrappavo a quella: sapevo che le onde non potevano travolgermi. Solo io potevo decidere di farmi trascinare, ma non volevo. C’era molta rabbia in me, ma non mi andava di litigare. Riconoscerla e disidentificarmi mi aveva ridato il controllo della mia mente. Insomma: stavo facendo una pratica di consapevolezza. Solo che… non è mai successo. Quando mi sono svegliato e ho provato a riorganizzare i pensieri, non avevo alcun ricordo preciso di un litigio il giorno prima, né di con chi fosse stato o per quale motivo. L’ho sognato. Ho sognato di sedermi a meditare durante un litigio. Il che apre un’infinità di porte e domande filosofiche sulla coscienza, ma poniamone solo una.
Noi sappiamo che la meditazione è una sorta di allenamento a rimanere completamente e totalmente coscienti, riconoscendo le emozioni senza identificarsi con esse. È molto più facile a dirsi che a farsi: a volte siamo persi dietro una distrazione, altre volte parliamo o agiamo per paura, per rabbia, per euforia. Come se ci fosse un pilota automatico, una persona arrabbiata farà quello che le dice la rabbia, talmente annebbiata da non rendersene conto o non rispondere a nessun altro stimolo, magari dopo anche pentendosi delle sue azioni. La meditazione invece allena lo stato opposto, di chiarezza mentale e defusione.
Sui sogni, invece, crediamo che siamo il reame delle emozioni, dell’irrazionalità, dell’inconscio. Eppure in quel sogno la mia coscienza ha preso il sopravvento: ha disimpostato il pilota automatico dell’emozione e ha detto “ora guido io”. Una teoria sul perché sogniamo dice che i sogni sono simulazioni di situazioni reali e che il cervello li usa per prepararsi agli eventi della vita diurna. Possiamo sognare di litigare con qualcuno in modo che il cervello abbia qualche schema pronto all’uso se la situazione dovesse verificarsi. In ottica evoluzionistica questo ci potrebbe salvare la vita, la prontezza nella strategia di lotta o fuga ci farebbe sopravvivere. Ma nel mio cosa cosa è successo? È come se il mio cervello stesse disimparando la reazione istintuale, “sapendo” (lo sa davvero?) che in quel caso lottare o fuggire peggiorerebbe la situazione. Forse si è ridotta l’attività dell’amidgala, che ha ceduto il passo alla corteccia prefrontale (l’area dell’autocontrollo). (Ricordate gli studi che ho citato prima?)
Potremmo leggere in molti modi questo sogno. Qualunque sia la spiegazione più scientificamente plausibile, il mio cervello ha risposto alle emozioni negative dando maggiore controllo alla mia razionalità e dandomi più facoltà di scelta su come reagire. Non mi interessa raggiungere la pace assoluta: quand’anche il cambiamento fosse minimo, questo è già un fatto stupefacente. Sono i pochi minuti al giorno meglio spesi in assoluto.
Omar Alfieri