Non solo fascisti e avversari politici ma anche donne, bambini, anziani e civili che si opposero ai partigiani di Tito: un numero indefinito di persone, vittime non solo di uno dei tanti tragici eventi che accompagnano la fine della Seconda guerra mondiale, ma vittime anche di un oblio della memoria durato sessant’anni, un arco di tempo troppo lungo durante il quale hanno cercato di “infoibare” la verità.
Solo nel 2005, infatti, venne istituito il Giorno del Ricordo, il 10 febbraio, in memoria degli italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe, profonde spaccature naturali del terreno, inghiottitoi carsici tipici della zona della Venezia Giulia e del Quarnaro, dalle milizie della Jugoslavia di Tito.
Il fenomeno interessò una parte di territorio contesa fin dalla Prima guerra mondiale tra popolazione italiana e popolazione slava, ossia il confine tra Italia e Jugoslavia, che venne delineato dalla cosiddetta “linea Wilson”: gli slavi videro sottrarsi una cospicua fetta dell’Istria dagli italiani e circa 500mila slavi si ritrovarono a vivere in territorio straniero. Inoltre, con l’ascesa del Partito Nazionale Fascista si mise in atto una politica di assimilazione forzata delle minoranze etniche e nazionali che puntava all’italianizzazione delle popolazioni slave.
In seguito all’armistizio firmato tra l’Italia e gli anglo-americani (8 settembre 1943) e al crollo del regime fascista, in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi guidati da Tito iniziarono a rivendicare il possesso di quei territori, procedendo all’eliminazione di tutti gli italiani fascisti e non comunisti, considerati nemici del popolo.
Ai massacri veri e propri si affiancò il doloroso esodo, più o meno forzato, della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia. Coloro che non emigrarono furono o uccisi o gettati vivi nelle foibe oppure deportati nei campi di concentramento sloveni e croati. Si trattava di ex fascisti, collaborazionisti e repubblichini, ma anche partigiani che non accettavano l’invasione jugoslava e soprattutto civili.
Solo quando gli alleati presero il posto dell’amministrazione jugoslava, il 12 giugno 1945, le violenze cessarono e Trieste rimase per nove anni sotto il controllo di un governo militare americano e britannico.
Si stima che dal 1943 al 1947 furono almeno 250 mila gli esuli italiani costretti a lasciare case, averi e terreni per fuggire dalle persecuzioni.
Sebbene nel 1945 il presidente del Consiglio De Gasperi avesse individuato un numero complessivo di 7.500 nomi di persone scomparse, in realtà il numero degli infoibati fu di gran lunga superiore ma non quantificabile con assoluta certezza (si stimano 20.000 persone uccise nei lager o infoibate).
Durante le uccisioni, i condannati venivano legati l’un l’altro e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco sparando non su tutto il gruppo, ma soltanto sui primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Giuseppe Comand, scomparso il 2 gennaio 2020, era l’ultimo testimone oculare del massacro delle foibe. Prese parte ad uno dei corpi di spedizione guidati da Arnaldo Harzarich, Medaglia d’oro al Valor Civile, che dall’ottobre del ’43 perlustrò con la sua squadra alcune foibe, recuperando oltre 250 salme.
Tra i corpi rinvenuti alla Foiba di Villa Surani – raccontò Comand in un’intervista sull’Avvenire – vi era anche quello di una giovane donna con gli occhi ancora aperti e rivolti al cielo. Secondo quanto gli fu riferito da due sorelle che in quei giorni cucinavano per la squadra di Harzarich, ella era stata sequestrata dai partigiani di Tito che l’avevano seviziata, stuprata per tutta la notte e uccisa.
“Era Norma Cossetto, la figura simbolo del martirio degli infoibati. Non aggiungo cosa le fecero prima di gettarla in foiba viva, non ce la faccio: anche allora ero scioccato, ma erano tempi in cui all’orrore si era abituati, adesso soffro di più”, ricordò con dolore Comand.
A chi avanzava tesi negazioniste, sostenendo che quei fatti atroci e terribili non si fossero mai verificati, rispose:
«Io che ho visto, sto male quando qualcuno osa negare gli eccidi di Tito e le Foibe. Basterebbe scendere oggi sul fondo delle tante rimaste inesplorate e continuare il lavoro del maresciallo Harzarich. Quanta povera gente è là sotto insepolta».
Ricordare è un dovere storico, perché come scrisse Primo Levi a proposito dell’Olocausto:
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”
Maria Teresa Beritelli