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Cultura

Il buio oltre la siepe, di Harper Lee

Pregiudizi, chi di noi non ne ha? Concetti che apprendiamo o che ci vengono inculcati sin da piccoli, semplici modi per difenderci… o no?

Anni ‘30, Scout ha cinque anni, vive col fratello e il padre avvocato in una piccola cittadina di campagna dell’Alabama (Maycomb). Una vita lenta tocca ai suoi abitanti, isolati dal resto del paese (e del mondo), in questo paesaggio smorto; pochi personaggi si discostano dalla norma, tra cui Atticus Finch, padre di Scout. Assegnato al caso di un operaio nero accusato di aver stuprato una ragazza bianca, dovrà riuscire a far superare le credenze comuni e impedire alla giuria (formata da soli bianchi) di condannarlo alla forca.

Dietro gli occhi innocenti di una bambina come Scout saremo in grado di immedesimarci ed entrare a far parte della vita di Maycomb, spesso dettata da regole non scritte date per assodate, solitamente residui di retaggi del passato, derivati più che altro dalla malvagità e ignoranza comuni che lasciano poco spazio alla possibilità di riscatto sociale. Non sembra assurdo che avere un certo cognome possa imprimerci un’etichetta? O che possa farlo aver avuto un cugino materno di sesto grado in carcere? Per non parlare del colore della pelle! Pure e semplici cattiverie, maschere che celano ragioni vane di odio. Odio non rivolto solo verso chi ha origini afroamericane, ce n’è per tutti i gusti! L’odio è sempre dietro l’angolo, pronto a scagliarsi sul capro espiatorio di turno, che sia basato su fatti reali o no. Un altro dei fili conduttori della trama è infatti l’estrema curiosità che Scout e il fratello, e un po’ tutti i bambini della contea, provano per il giovane Arthur Radley: recluso da padre anni prima in casa per evitargli il riformatorio, nelle fantasie della gente Boo (così chiamato dal molti) diviene un mostro deforme con artigli affilati e sei file di denti, usato dai genitori come una sorta di “lupo nero” per far stare i bambini buoni. Sebbene non lo si veda in città da anni, le dicerie trovano sempre uno spunto.

Il titolo, quello originale, è la chiave per comprendere la storia. To kill a mockingbird, uccidere un fringuello*, azione che viene citata nella storia ed esprimibile come una cattiveria vana: gesto inutile, puro sfizio di un cacciatore o del primo muniti di un fucile sotto braccio, l’unico danneggiato è il fringuello, ma poco importa, no?

Harper Lee negli anni ‘60, in un’America ancora fortemente divisa tra bianchi e neri, dipinge questo mondo statico come dietro una teca, anni luce lontano dal nostro, eppure ancora terribilmente vicino, in una dicotomia presente, passata e (anche se speriamo di no) forse futura. Bianchi, neri, gay, etero, intra ed extracomunitari, cattolici, musulmani, che si sia diversi per religione, colore, genere o etnia, tutto ciò che non combacia con la cosiddetta “normalità” ancora ci spaventa, lo vogliamo lontano, ci dà fastidio. Fin dall’alba dei tempi questo istinto primordiale, che la civilizzazione cerca di estirpare, minaccia la vita di tutti. Ebbene sì, la propaganda Black lives matter di quest’anno ce lo ricorda molto bene: il razzismo e la discriminazione sono ancora fortemente radicati nelle nostre società.

E non facciamo finta di essere il volto della civilizzazione, che il negazionismo non ha mai risolto alcun problema! Chi più, chi meno, tutti noi cerchiamo motivi che avvalorino quello che già crediamo… Non siamo mica razzisti, eh, vogliamo solo semplici modi per difenderci, no?

Forse, la prossima volta che vogliamo iniziare una frase con: ”Non sono razzista, ma…” dovremmo chiederci se quello che vogliamo è “difenderci” o… uccidere un fringuello!

Buona lettura!

*P.S. Mockingbird effettivamente non vuol dire fringuello, è un passeriforme molto comune in America. Non essendoci un nome corrispondente diffuso in italiano, di solito si usa il termine fringuello.

Angela Schillirò

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