A volte si tende a dimenticare o mettere in dubbio quanto alcuni temi della letteratura e della storia siano attuali ancora oggi. Molti studiano determinate vicende nella convinzione che esse appartengano ad un passato lontano, e come tali non interessino il presente, oppure ricordano particolari eventi soltanto nei giorni esatti che la società ha prefissato.
Scendiamo nel particolare e prendiamo in esame un solo evento, un esempio calzante: la Shoah, termine ebraico con cui si indica lo sterminio di milioni di ebrei, avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale per mano della Germania nazista e dei suoi alleati. Essa è ricordata il 27 gennaio, data in cui le scuole di ogni grado si trasformano in veri e propri cinema per proiettare film riguardo al tema; i social network pullulano d’immagini e poesie per tenere vivo il ricordo delle sofferenze che milioni di uomini hanno patito senza alcun motivo. Poi passano i giorni e i mesi, e nella stragrande maggioranza dei casi tutti si dimenticano dell’Olocausto, del dolore che ha causato e delle conseguenze che esso ha avuto, fino a quando non trascorre un anno e si giunge di nuovo al mese di gennaio, al ventisette, e lo scenario esposto prima si ripete. Eppure basta leggere solo qualche frase della Prefazione di Se questo è un uomo di Primo Levi per capire che eventi come questo, non solo meritano di essere ricordati ogni singolo giorno, ma sono attualissimi nella società in cui viviamo.
Levi scrive: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero”. Non è forse questo ciò che accade ogni giorno quando in Italia giungono sui barconi uomini, donne e bambini provenienti dall’Africa? Sono stranieri che chiedono accoglienza, però per molti si trasformano subito in nemici, senza conoscere la loro storia e le loro motivazioni. Se solo si soffermassero un minuto a pensare che prima di essere stranieri sono innanzitutto uomini, padri, madri, figli, si eviterebbero di pronunciare frasi cariche di odio e d’indifferenza e di compiere azioni di violenza scellerata.
Quello su cui dovremmo riflettere è che fin quando pensieri di questo tipo apparterranno ad un singolo, sarà raro che questi abbiano una diffusione. Se diventassero l’espressione di una collettività, un “sistema di pensiero”, quanto danno rischierebbero di arrecare? La risposta ci viene fornita da Levi, che scrive: “Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Pericolo, dunque. Un’affermazione di un certo peso, che spaventa inevitabilmente gli uomini contemporanei che non credono alla possibilità che l’orrore consumato nei campi di concentramento possa ripresentarsi con la stessa forza. O forse non vogliono crederci, perché pensano che gli atti di discriminazione presenti oggi non siano paragonabili a quelli degli anni Quaranta del ‘900.
Nella prefazione dell’ultima opera di Primo Levi, I Sommersi e i salvati, si legge: “Ma se prima di indignarsi bisogna aspettare che le sofferenze umane raggiungano l’apice di Auschwitz, allora si potrà ancora per molto tempo, e con la coscienza tranquilla, fare orecchie da mercante ai lamenti di uomini e popoli”. Perciò, se non ci sarà più un genocidio di tale portata, non sarà di certo perché l’uomo non ne sia capace (d’altronde la storia ha sempre dimostrato e insegnato il contrario), ma perché il valore del ricordo di ciò che è avvenuto si mantiene vivo, anche se solo una volta l’anno.
Enza Mirci