<< Noi capiamo e rispettiamo le persone di società a noi più familiari, ma non comprendiamo né rispettiamo quelle appartenenti a società più distanti: per questo siamo diventati barbari gli uni verso gli altri (…). In questo senso nessuno di noi si distingue come barbaro o come greco, perché tutti noi respiriamo l’aria con la bocca e le narici e ridiamo quando siamo allegri o piangiamo quando soffriamo>>. (Antifonte)
Quanta verità può essere contenuta in un frammento così breve e distante dal tempo in cui viviamo. Eppure le parole di Antifonte, autore ateniese del V secolo a.C., sembrano oltrepassare i confini spazio temporali e le barriere linguistiche per reclamare giustizia. Giustizia nei confronti di uno Stato che costruiva il suo potere sul concetto di diversità, discriminando il barbaro dal greco. Si trattava pur sempre di uomini, ospiti dello stesso pianeta e accomunati dalla medesima natura di esseri viventi, ma divisi da una nazionalità discriminatoria che li rendeva diversi e addirittura nemici. E questo purtroppo, è solo l’inizio di un circolo vizioso fatto di diritti mancanti, calpestati, mai concessi oppure ottenuti solo dopo bagni di sangue o massacri di uomini e di donne, di padri e di madri, di lavoratori e di lavoratrici che desideravano un mondo migliore per chi come loro non aveva mai avuto il diritto di contare. La loro unica colpa era quella di essere state vittime di un sistema di pregiudizi e di stereotipi costruiti da una politica inadeguata e paladina dei propri privilegi.
Nonostante siano passati diversi anni dal secolo in cui visse Antifonte, dall’Indipendenza dei coloni americani, dalla Rivoluzione francese, dal suffragio universale maschile e femminile, dal Manifesto della razza e dalla caduta del muro di Berlino, siamo ancora lontani da un mondo fatto di diritti. Sembra assurdo come nella società del XXI secolo, paradossalmente, sia più facile scoprire l’acqua su Marte, trovare nuove cure per malattie rare o poco conosciute, o costruire robot in grado di comportarsi e di agire come umani piuttosto che tutelare i diritti e la dignità di uomini, donne e bambini. Molti di loro, ancora, si ritrovano sprovvisti di una legge che li protegga dagli attacchi fisici e psicologici di cittadini che, avvalendosi dello status di normalità, legittimano e giustificano l’uso della violenza. “Se l’è cercata” dicono sempre. Ma cosa significa essere normale? Come può una società democratica tollerare e accettare azioni di violenza inaudita con il solo scopo di sopraffare, calpestare e sottomettere l’altro?
Troppo spesso si sente parlare di omosessuali picchiati dopo essersi tenuti per mano in pubblico, di barboni bruciati vivi, di immigrati morti in mare sotto gli occhi indifferenti dell’Unione Europea, o ancora di stranieri insultati, aggrediti e uccisi a causa del colore della propria pelle. Per non parlare poi di tutti quei diritti concessi e in un secondo momento negati, come la legge sull’aborto in Polonia, o ancora l’utilizzo di legislazioni apparentemente finalizzate alla sicurezza nazionale, e poi applicate per reprimere le idee di giovani attivisti, come il caso dello studente bolognese Patrick George Zaky. Il ricercatore di origine egiziana, infatti, è accusato di istigazione al terrorismo, dopo essere stato bendato e ammanettato per diverse ore, per poi essere picchiato e sottoposto all’elettroshock. Per lui non esistono diritti umani che possano salvarlo dalle disumane condizioni delle carceri egiziane, o ancora peggio, dalle torture delle forze dell’ordine.
Per questo motivo è necessario ricordare la Giornata Mondiale dei Diritti Umani non come l’ennesima ricorrenza da condividere su Instagram per aggiornare la propria bacheca, ma come la possibilità di difendere e dar voce a chi non ha più le forze per urlare, a chi questa voce è stata stroncata con violenza, e a chi di fronte al fastidioso silenzio dell’indifferenza risponde con grida di speranza e di amore.
Martina Maiuzzo