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Giurisprudenza Società e Attualità

A diritto ambientale come siamo messi?

Come sta affrontando la rivoluzione green l’Unione Europea

Da quando nel ’92 Severn Cullis-Suzuki, passata alla storia come “la bambina che zittì il mondo per sei minuti”, fece il suo discorso alle Nazioni Unite, il movimento ambientalista mondiale di strada ne ha fatta, per trovare recentemente in Greta Thumberg e in migliaia di giovani in protesta per l’ambiente il nuovo slancio mediatico che gli occorreva.

Siamo forse arrivati al punto in cui la tutela del nostro pianeta è una delle prerogative dell’azione di molti governi, i quali dovrebbero altresì comprendere che è necessario rinnovare le politiche agro-alimentari. Difatti, l’industria alimentare e il settore agricolo rappresentano i responsabili di oltre il 30% dell’emissioni di gas serra, essendo alcuni tra i principali concorrenti al cambiamento climatico.

Per l’Unione Europea il testo di riferimento è il Green Deal, che mira entro il 2050 a fare del nostro continente il primo a raggiungere la neutralità climatica, attraverso la revisione delle norme in materia di biodiversità, di agricoltura, di innovazione e di economia circolare. Importante elemento che si combina al Green Deal è la PAC, ovvero la Politica Agricola Comunitaria, importante settore dell’azione comunitaria tanto da pesare quasi un terzo dell’intero budget UE; attiva dagli anni ’50, tutela la condizione delle aziende e dei lavoratori agricoli aiutandoli ad incrementare la produttività e assicurandone le condizioni lavorative.                                       

Con la riforma PAC 2014-2020 si erano introdotti degli strumenti, tra i quali un sistema di sussidi, per promuovere la sostenibilità ambientale nelle filiere: un totale fallimento, certificato dalla Corte dei Conti Europea, a causa dell’incursione delle lobby agroindustriali nell’ambito del progetto di riforma, che ha annacquato le misure fino a renderle inefficaci.

Nel 2018 un progetto di riforma era indispensabile, chiamato in causa anche da accordi e obiettivi internazionali come quelli proposti negli accordi di Parigi o dell’Agenda UE 2030; sfida raccolta dalla commissione Juncker, che promosse una vasta consultazione dei cittadini. Ne uscì che si voleva una maggiore attenzione verso la sostenibilità ambientale e la salubrità nelle filiere del cibo, in linea con la volontà già adottata dalla Commissione, in accordo al superamento del sistema dei sussidi, accompagnato dallo slogan Public money for public goods: aiuti pubblici devono essere destinati ad azioni che generino un verificabile beneficio collettivo.       

La commissione successiva a Juncker, eletta nel 2018 a guida Von der Leyen, ha raccolto la proposta di regolamento della precedente commissione e l’ha riposizionata su obiettivi più ambiziosi, incasellando la PAC nel Green Deal attraverso due strategie: 

Biodiversità 2030, che prevede tra l’altro di destinare almeno il 10% del territorio agricolo ad aree per la conservazione delle specie selvatiche;

Farm to Fork, “dal campo al piatto”, che introduce norme riguardanti importanti riduzioni dell’uso di fertilizzanti sintetici del 20%, il dimezzamento dell’uso di pesticidi pericolosi e antibiotici veterinari, la crescita del territorio agricolo a conduzione biologica fino al 25% della superficie agricola europea.

In effetti l’ambiziosa sfida che l’UE si era posta è naufragata: ancora una volta le lobby agro-alimentari hanno cinto d’assedio le istituzioni europee e degli stati membri, facendo retrocedere i risultati raggiunti in anni, se non decenni.

Nel nostro Bel Paese i “diretti responsabili” alla questione Green Deal-PAC sono il ministro Teresa Bellanova per le politiche agricole e il ministro Sergio Costa per l’ambiente e la tutela del territorio. Nelle svariate trattative europee sulla questione agricola, la ministra Bellanova sembra mettere come prerogativa della sua linea politica la condizione dei lavoratori agricoli, e soprattutto lo sforzo che quest’ultimi debbano fare per una conversione green. Infatti, secondo la Bellanova gli aiuti dati dall’UE sarebbero insufficienti, in particolare in questo periodo segnato dall’attuale pandemia, affermando: «Non capisco come mai alla PAC sono destinate solo 15 dei 750 miliardi di euro che dovrebbero essere messi a disposizione attraverso il Recovery Fund. Sono inoltre molto preoccupata di come potranno essere utilizzate queste risorse aggiuntive, concentrate in soli tre anni, e non condivido la chiave di riparto proposta».

Per il ministro Costa non andrebbe meglio: il suo ddl Terra mia, il testo-bandiera del ministro dell’Ambiente doveva essere tra quelli all’esame del governo giovedì 22 ottobre 2020. L’esponente M5s ne parla da due anni e ne ha più volte annunciato il varo in tempi brevi, questa sembrava la volta buona. Il disegno di legge si proponeva di innovare significativamente l’apparato sanzionatorio applicabile alla materia ambientale, attraverso un intervento che interessa il Testo Unico dell’Ambiente (d. lgs. 152/2006), il Codice Penale, il Codice Antimafia (d. lgs. 159/2011) e il d. lgs. 231/2001, che disciplina la responsabilità da reato degli enti. Quindi, un progetto di legge che favorirebbe la lotta dello Stato agli ecoreati e soprattutto alle eco-mafie. Ad oggi il ddl sembra essere recluso nel limbo delle leggi annunciate e mai approvate: in alcuni corridoi della politica è stato etichettato come “manettaro” e una forte obiezione dagli ambienti renziani e dem, di recente, ne ha fermato l’approvazione.                                  

In conclusione possiamo solo aspettare l’esito della partita che si sta giocando fra Stati Membri, Commissione e Parlamento UE, per sperare che si arrivi a un risultato concreto per la tutela dell’ambiente e per l’innovazione del settore agricolo comunitario.

Federico Androne

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