“Eliogabalo entra in Roma, al mattino di un giorno del marzo del 218, all’aurora, in un periodo che corrisponde pressappoco alle idi di marzo. E vi penetra a ritroso. Davanti a lui vi è il Fallo, tirato da trecento fanciulle dai seni nudi che precedono i trecento tori, ormai intorpiditi e calmi, ai quali è stato somministrato nelle ore che precedono l’aurora un sonnifero assai ben dosato”.
Entrata degna dell’ultima fase barocca, quella più arzigogolatamente audace, profumi originari delle terre d’Oriente accompagnano la vita orgiasticamente bella e compiuta del giovanissimo imperatore-dio descritta dal folle estro del francese Antonin Artaud. Come fosse votato per natura alla stesura della biografia del precocissimo imperatore romano, il francese narra, con piglio storiografico, vita morte e non-miracoli del governatore consapevole della disgregazione di Roma tra orge, castrazioni, feste bacchiche infinite e liquidi corporei di indubbia provenienza.
Eliogabalo, nato Sesto Vario Avito Bassiano, è la figura perfetta dell’incarnazione della decadenza in procinto di sopraggiungere nel grande Impero Romano; probabile figlio di Caracalla, concepito tra le lenzuola sporche del sangue di Geta, brutalmente assassinato dal fratello per il governo totale di Roma; figlio, nipote, pronipote delle mille mila Giulie Mesa, Mamea e Soemia. A cinque anni venne destinato al sacerdozio del Dio Solare, più per prestigio che per effettiva devozione; bambino rivestito di lunghi pepli candidi, ingioiellato, truccato con occhi allungati da uno spesso tratto di carbone e corpo impomatato di opulenti e costose polveri dorate. Come un simulacro scolpito da Fidia in preda ai fumi emessi dal vino dionisiaco, Eliogabalo si avviò al comando dell’Impero subito dopo la deposizione dell’imperatore Macrino ad opera dell’eunuco-consigliere Gannys. Macrino non sopportò questa offesa; prese il primo cavallo che vide e scappò via come se fosse inseguito da uno stormo di avvoltoi assetati. Corse, corse e corse ancora un po’ per essere raggiunto un po’ meno celermente dal suo mesto destino: la pena di morte.
Eliogabalo sul trono. Aria fresca e priva di guerre in quel di Roma; scongiurate tutte le guerre e gli scontri, il giovane adolescente prende una, due, tre volte la pudica Cornelia Paula, tradendola a giorni alterni con una vestale di poco conto, cortigiana dell’ultima ora, arrivista dai grossi monili d’oro. Pare che l’unica occupazione dell’imperatore fosse quella di organizzare orge e scontri contro i nobili e austeri romani. L’imperatore non fu un sole raggiante; durò come un “gatto in tangenziale”: nudo come Priapro, impomatato e decadente, venne sgozzato nelle latrine imperiali e gettato nell’avveneristica rete fognaria dell’impero che (non) ha governato. Stessa sorte toccò alla madre.
Antonin Artaud descrisse la breve vita di un astro servendosi di una vasta gamma di descrizioni decadenti mediate dal gusto avanguardista che tanto caratterizzò le sue opere letterarie e teatrali. Questa non è una semplice biografia: essa è la trasfigurazione dell’esteta anarchico con testa incoronata. Paradosso simpatico se si pensa all’etimologia del termine “anarchia”; Eliogabalo, più umano che Sole personificato, è fuori da ogni logica di potere; non dichiara guerra né formule riforme. Sin dal primo giorno di governo, circondandosi di eunuchi-consiglieri, belli, effemminati e orgogliosamente svestiti di tutto punto, non fa altro che anticipare le tendenze del Dandismo: dissociazione dalla politica, dai conflitti e vivere godendo. Art pour l’art profumata dall’assenzio e in estasi per i semi di oppio, quest’ultimi non ancora conosciuti dall’Occidente. Figura a tratti demoniaca, labbra succose e rosse come una mela, balla come le odalische squadrate del Bauhaus. L’imperatore non ha alcun sesso. Seguendo il pensiero dicotomico, l’adolescente incarna sia il femminile sia il maschile; giovane donna per gli uomini, giovane uomo per le donne. Grazia personificata che scandisce ogni suo passo al suono di cembali, tamburelli, trombe, piatti; sacerdote del Fallo, statua posta appena dietro la cappa dorata e gli allori, presto insanguinati, di Elagabalus.
Artaud ‹artó›, Antonin. Scrittore, regista e attore francese (Marsiglia 1896 – Ivry-sur-Seine 1948); aderente al surrealismo, se ne allontanò per frequentare la scuola di Ch. Dullin, esordendo come attore all’Atelier. Nel 1926 impostò un’attività teatrale autonoma con la fondazione del teatro Alfred Jarry (dove esordì come regista mettendo in scena una sua pochade) e con la elaborazione di alcuni manifesti teorici sul coinvolgimento dello spettatore. Per Artaud compito del teatro sarebbe scuotere e sconvolgere lo spettatore: il suo teatro della crudeltà intendeva appunto proporre uno spettacolo totale, in cui fossero impiegati tutti i mezzi d’azione (luci, suoni, gesti, vicende, ecc.) atti a suscitare la partecipazione incondizionata dello spettatore. Nel 1935 assunse la direzione del Folies-Wagram e vi rappresentò il suo dramma Les Cenci. Una malattia mentale lo costrinse a vivere lontano dalla vita teatrale, ma scrisse ancora qualche saggio (tra cui il volume Van Gogh, le suicidé de la société, 1947). Tra le sue opere: Tric trac du ciel (1923); L’ombilic des lymbes (1925); L’art et la mort (1929); Les nouvelles révélations de l’être (1937). Ricca di notizie la sua Correspondance avec Jacques Rivière (1927) e notevoli le Lettres d’A. A. à J.-L. Barrault (post. 1952); fondamentale per il teatro Le théâtre et son double, 1938.
Serena Di Muni (Salomé)