Oggi, 25 novembre, come ogni anno mi pongo due domande: perché non basta, non è bastato schierarsi contro la violenza in sé, in tutte le sue forme? Com’è possibile che si sia arrivati a rendere doverosamente necessaria l’istituzione di una giornata contro la violenza sulle donne? Purtroppo so che queste domande sono lecite in un mondo utopico in cui non esistono disparità tra donne e uomini. Nella realtà in cui viviamo, riflettere sulla violenza di genere è un dovere morale e civile, una necessità assoluta.
Anche la distinzione tra omicidio e femminicidio è purtroppo necessaria. Basti osservare i grafici Istat: gli uomini vengono uccisi nella maggior parte dei casi da persone non identificate o comunque esterne alla cerchia di familiari e conoscenti; per le donne è sempre l’esatto contrario.
Le vittime di femminicidio in Italia sono state 59 da gennaio a giugno, e il numero è aumentato nei mesi successivi. Non sono solo cifre, si possono leggere liste con i loro nomi e cognomi, persone reali, donne uccise nella maggior parte dei casi da persone da cui credevano di essere amate. Ciò che chiamiamo femminicidio poi ricorda “solo” il tragico epilogo di una serie di violenze fisiche e psicologiche che le vittime hanno subito e subiscono ogni giorno della loro vita per anni.
La violenza di genere in realtà si esprime in moltissimi modi, quasi sempre la violenza fisica è preceduta e accompagnata da quella psicologica. Molte donne si convincono che sia comprensibile e giustificabile la reazione violenta del partner ad un diniego, a un ritardo da lavoro o a qualsiasi altra semplice azione. Alla base c’è la malsana idea che ci siano differenze in ambito familiare e sociale tra uomo e donna, l’idea che in ambito sessuale la volontà e la libertà della donna siano nulle o minime rispetto a quelle dell’uomo. Forse questi uomini piccoli sono spaventati dalla possibilità che la donna, come loro, sia libera e indipendente? Forse persiste in loro ancora il retaggio del pater familias, capo e padrone di tutto e tutti? Non c’è da stupirsi se pensiamo che fino al 1981 l’omicidio della moglie adultera era punito con pene più lievi rispetto ad altri omicidi, perché l’adulterio minava l’onore della famiglia.
In realtà a noi poco importa cosa passa per la testa di un assassino o di uno stupratore. A noi poco importa che l’uccisore della donna sia un gran lavoratore, come spesso i giornalisti si premurano di specificare, e ancor meno ci interessa sapere che la causa scatenante dell’ira funesta sia stata la gelosia. A noi non importa nulla dell’abbigliamento di quella ragazza quella sera. Un sospetto tradimento, un tradimento reale, un diniego, una scollatura, un atteggiamento disinvolto, una battuta a sfondo erotico, NIENTE GIUSTIFICA LA VIOLENZA. Bisogna urlare a gran voce che non esistono attenuanti e che la vittima non può mai essere ritenuta corresponsabile della violenza subita.
Appreso questo, possiamo pensare a delle possibili soluzioni, nell’augurio che nessuna lettrice si trovi in simili situazioni. Se si è vittime di violenza innanzitutto bisogna parlarne con una persona di fiducia. Spesso non lo si fa per proteggere la reputazione del partner violento. La vostra vita, la vostra salute mentale e fisica e la vostra libertà valgono molto più della reputazione di un violento. Se non si sa come procedere, bisogna chiamare il 1522, il numero anti violenza e stalking, anche solo per avere un consiglio. Il modo più efficace di liberarsi è rivolgersi ad un centro antiviolenza. In essi operano professioniste che si occupano di consulenza psicologica e legale, ed anche volontarie disposte ad ascoltare e aiutare in vari modi. A Catania sono attivi due centri: Associazione Onlus Thamaia Centro Antiviolenza e Centro Antiviolenza Galatea.
Per il resto tutti noi, uomini e donne di buon senso, quotidianamente abbiamo il dovere di impegnarci per estirpare alla radice la cultura delle differenze di genere, educare all’uguaglianza, alla parità, al rispetto e alla non violenza i nostri interlocutori più piccoli, ma anche coetanei e più adulti, nella speranza che un giorno il grido “Non una di meno” diventi realtà.
Francesca Occhipinti