La letteratura, con il suo vastissimo repertorio di emozioni e vicende umane, da ancor prima che nascesse la psicologia come scienza offre spunti per analisi lucide e puntuali sui meccanismi della psiche umana e sulla sofferenza psicologica.
In non pochi casi sindromi, patologie e complessi psichici sono definiti adottando nomi di personaggi letterari: alcuni largamente noti come il complesso di Edipo, il complesso di Elettra, il bovarismo (da Madame Bovary), la sindrome di Dorian Gray, la sindrome di Asperger (o di Sherlock Holmes); altri forse meno, come la sindrome di Otello e la sindrome di Rebecca, caratterizzate da un particolare tipo di gelosia delirante.
Una premessa è doverosa: la gelosia è un sentimento umano e comune, una morsa nella quale ciascuno di noi si è ritrovato stretto almeno una volta nella vita, preda dell’angoscia e del tormento di non essere abbastanza e di poter perdere a causa di terzi la persona amata (partner, ma anche amici o familiari).
La gelosia inizia a far capolino fin da bambini, quando per esempio nasce un fratellino, e allora si chiama “gelosia infantile”, mentre per gli adulti si parla invece di “gelosia sessuale” o “romantica”. Gelosia deriva etimologicamente dal greco ζηλoς , che significa “brama, desiderio”, e contrariamente a quello che si potrebbe pensare non è rivolta tanto nei confronti della persona amata, quanto nei confronti di un altro soggetto con cui si entra in rivalità, perché avvertito come potenziale nemico che potrebbe portarci via l’affetto di chi amiamo.
Quando però nelle relazioni amorose questo sentimento si radica pervicacemente nella mente fino a diventare un pensiero ossessivo, si parla di gelosia delirante o paranoia alcolica, ossia una vera e propria sindrome psicopatologica definita Sindrome di Otello, dal nome dell’omonima tragedia di William Shakespeare, in cui il protagonista si convince a torto dell’infedeltà della moglie e la uccide. Celeberrima la metafora della gelosia come “mostro dagli occhi verdi” che si incontra proprio in quest’opera: “Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre” (Otello; atto III, scena III). Il soggetto che ne soffre accusa in maniera ossessiva e delirante il proprio partner di essere infedele, spesso mettendo in atto comportamenti lesivi della libertà della persona quali stalking, cyberstalking, fino ad arrivare a sevizie morali o violenze fisiche.
Un caso ben diverso è rappresentato invece dalla cosiddetta gelosia retroattiva, un tipo di gelosia che riguarda il passato amoroso e sessuale del proprio partner, definita Sindrome di Rebecca dal titolo del romanzo noir di Daphne du Maurier Browning. Essa coinvolge uomini e donne, si manifesta in forma di ansia, rabbia, diffidenza, ossessione per il tradimento e nasce dall’insicurezza e dalla paura di non essere “migliore” o all’altezza dei vecchi amori del partner, verso il quale si nutre un soffocante e pericoloso sentimento di possesso. La chiave di volta della sindrome di Rebecca è rappresentata dalla tendenza all’idealizzazione delle precedenti relazioni della persona amata, mista a sentimenti di frustrazione personale e fallimento che derivano dal mettersi in una competizione impossibile col passato.
Sintomi che ritroviamo in effetti nella protagonista del romanzo nero di Lady Browning, pubblicato in Italia con il titolo di “Rebecca, la prima moglie” (1938), da cui fu poi tratto il fortunatissimo film del 1940 (vinse due Oscar), diretto da Alfred Hitchcock e interpretato da due attori hollywoodiani di fama mondiale del calibro di Laurence Olivier e Joan Fontaine.
A tal proposito, a partire da mercoledì 21 ottobre la piattaforma di intrattenimento a pagamento Netflix rilascerà “Rebecca” (2020), l’ultima pellicola ispirata al romanzo, con Lily James e Armie Hammer nel ruolo dei protagonisti.
Quello di Daphne du Maurier è un romanzo sentimentale/noir, a tratti thriller, che rapisce e sconvolge il lettore sin dal malinconico incipit “I dreamt last night I went to Manderley again…” (“sognai l’altra notte che tornavo a Manderley…”), lo incanta con un ritmo incalzante e un susseguirsi di indizi che sfociano in un finale drammatico che ribalta ogni aspettativa.
La narratrice (di cui si tace il nome) è una giovane dama di compagnia che incontra un ricco vedovo, Maxim de Winter, e dopo averlo sposato lo segue a Manderley, la sua lussuosa dimora in Cornovaglia. Qui però la dolce e timida protagonista deve fare i conti con il carattere freddo ed enigmatico del marito e l’atteggiamento sprezzante e apertamente ostile della governante, la Signora Danvers. Quest’ultima vive infatti legata morbosamente al ricordo della prima moglie di Maxim, Rebecca de Winter, morta in un misterioso incidente a bordo del suo panfilo, mai rinvenuto. Sulla nuova Signora de Winter la governante inizia ad esercitare una pressione psicologica crescente, rimarcando in maniera costante la sua inadeguatezza e mediocrità in confronto alla bellissima, raffinata e avvenente Rebecca.
Tutto a Manderley non fa che ricordare lei e la sua assenza è avvertita dalla protagonista come una presenza ingombrante, spettrale, opprimente, soprattutto a causa dell’inspiegabile reticenza del marito e della sua indisposizione a parlare di qualunque cosa riguardasse il suo passato insieme a Rebecca.
Con meccanismi perversi, la Signora Danvers sembra voler eternare questa misteriosa figura comportandosi come se la donna fosse ancora viva, amministrando la casa secondo quella che era la volontà della defunta e conservandone gelosamente e devotamente gli effetti personali (i suoi abiti da sera, il suo scrittoio, la sua camera da letto).
Tutto concorre dunque ad accrescere il senso di disagio e il tormento della protagonista, che arriva a convincersi che mai avrebbe potuto competere con il passato e prendere il posto della adorata e amatissima Rebecca nel cuore di Maxim. Istigata dalla governante, la nuova Signora de Winter è sul punto di gettarsi dalla finestra per la disperazione, quando il ritrovamento del panfilo con dentro il corpo di Rebecca riporta alla luce le verità nascoste…
Come risulta evidente, tra letteratura e psicologia esistono varie relazioni, non limitate al semplice fatto che la psicoanalisi si impadronisce di alcuni miti e temi letterari: linguaggio, scrittura e letteratura sono a tutti gli effetti strumenti cognitivi che consentono di padroneggiare la conoscenza di processi psicologici.
E se è vero quanto affermava lo psichiatra e critico letterario Starobinski, secondo cui “ Il poeta è un sognatore che non si è analizzato, ma che, nondimeno, ha reagito drammaticamente; Freud è uno Shakespeare che si è analizzato”, allora in un certo senso possiamo considerare gli scrittori come gli antesignani della psicoanalisi e i migliori alleati di essa.
Maria Teresa Beritelli